mercoledì 18 gennaio 2012

Meglio "forti" che "buoni"

Avvertenza: quanto segue non è altro che una sequela di banalità, ma anche ciò che è banale merita d'essere proferito e persino ribadito più e più volte se serve a favorire la giustizia.

Hollywood racconta storie in cui il mondo è spaccato nettamente in due: ci sono da una parte i buoni e all'altra i cattivi. Ma Hollywood è l’industria della finzione, quindi non c’è da stupirsi che una distinzione così netta tra i due schieramenti sia palesemente irrealistica. La finzione hollywoodiana però è persino più radicale di così poiché non esistono persone buone e persone malvagie. Semplicemente non esistono. Con questo, il vostro affezionato Panda, non intende dire che siamo tutti uguali, al contrario. Il fatto è che ”buoni” e “cattivi” sono parole altamente fuorvianti e pericolose. Tendono pericolosamente a divenire semplici bandiere con cui distinguere uno schieramento da un altro su un campo di battaglia. Sarebbe molto meglio ammettere che non esistono i buoni e i cattivi, ma solo persone forti e persone deboli. Le forti sanno come si vive e lo fanno pacificamente, allietando la propria e l’altrui esistenza tramite il proprio operato. Le persone deboli, al contrario, non sanno come vivere e si arrabattano scompostamente nel patetico e puerile tentativo di occultare a sé stessi ed agli altri le proprie insicurezze. I deboli si camuffano da forti, storpiando il significato della parola forza, come fecero a suo tempo nazismo e fascismo. Anche così grottescamente camuffati tuttavia i deboli non sono in grado di fare altro che manifestare la propria debolezza e, nel far ciò, ovviamente, infliggono continui dolori e dispiaceri a sé stessi e, di riflesso, a tutti gli altri.

La storia del resto e piena di “buoni” che...

...hanno compiuto atti orribili (che nessuno ricorda) e di “cattivi” che non gli sono sopravvissuti per poter raccontare come sono andate effettivamente le cose. "Buoni e cattivi" è quasi sempre una storia totalmente arbitraria e spesso oscenamente grottesca. Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, per esempio, moltissimi giapponesi furono assai sorpresi nel vedere che i “cattivissimi” americani non erano dei demoni muniti di corna diavolesche, ma semplici e banali esseri umani. Non pochi soldati americani, d’altra parte, si stupirono della raffinatezza e della bellezza della cultura contro cui avevano ferocemente combattuto solo poco tempo prima. Qualche decennio dopo nessuno si stupiva più se i vecchi e “cattivissimi” nemici erano ormai solidi e fidati partner commerciali.  

Il “fascino del male” perde di attrattività, se “il male” viene identificato con la debolezza, la banalità ed il ridicolo di cui effettivamente si compone. Il “bene”, d’altra parte, smette d’essere una scusa per combattere qualcuno, se il suo scopo è espressamente quello del vivere e lasciar vivere gli altri in santa pace. Se si abbandona il concetto di “male” per sposare quello di “debolezza”, si abbandona anche quello di colpa o peccato per abbracciare quello di svista od errore. Ciò ha delle conseguenze, poiché se la colpa ed il peccato sono legati al concetto di punizione, i concetti di svista ed errore sono collegati a quello di correzione e/o miglioramento. La divisione del mondo tra buoni e cattivi istiga le persone ad adottare una visione vendicativa (poiché la colpa giustifica le punizioni) oltre che auto-assolutoria (poiché se la colpa è tua allora non è mia). La distinzione tra forti e deboli (purché non si sia tanto deboli da finire in visioni fascistizzanti e/o bassamente nichiliste) spinge al contrario le persone all’emulazione, al miglioramento perpetuo, ad un atteggiamento paziente verso chi sbaglia e propositivo dinnanzi alle avversità. “Un errore è fatto per essere corretto” è un concetto assai più costruttivo dell’idea secondo cui “la colpa deve essere punita”. Il vostro affezionato Panda si scusa per la brutalità delle proprie affermazioni, ma chi non riesce a comprendere queste semplici constatazioni è di fatto un debole. Questo sia detto senza compiacimento né arroganza, ma resta di fatto che, se non si è in grado di comprendere l’inutilità del concetto di colpa, allora si è dei deboli, inteso in termini asettici come coloro che adottano atteggiamenti fallimentari.

Se si considera, ad esempio, il crimine in termini di colpa o peccato, si dirà che lo scopo della giustizia dovrebbe essere quello di punire il criminale. Da questo punto di vista la prevenzione dell’atto criminoso spetta solo alla severità delle pene inflitte ai colpevoli. Sempre ammesso che la giustizia umana sia sempre in grado di distinguere tra colpevoli ed innocenti, rimane il fatto che millenni di storia e statistiche hanno inconfutabilmente sancito l’assoluta inefficacia di questa strategia “punitiva”. Dove ci sono punizioni draconiane ci sono anche alti tassi di criminalità. Se il crimine viene interpretato, al contrario, come una sequela di errori e debolezze individuali e collettivi, allora si riterrà che il compito della giustizia sia quello di eliminare l’errore che ha dato origine al crimine. La prevenzione sarà quindi il presupposto e non un corollario, poiché evitare di errare è meno oneroso che riparare continuamente i danni causati dal ripetersi dell’errore. Concentrandosi sulla debolezza anziché sulla colpa, inoltre, ci si renderà facilmente conto che, si potrà pure eliminare i criminali acciuffati, ma questo non eliminerà il reiterarsi degli atti criminali se la causa che li ha generati non viene interrotta. Togliere l’errore alla base dell’atto criminale, in questo caso, non sarà possibile tramite la sola severità della pena, poiché la pena stessa sarà percepita come un fallimento che denota la persistenza dell’errore. Se ci si concentra sulla forza e sulla debolezza, eliminare il crimine e l’errore che lo ha generato vorrà dire rendere forte chi forte non è. Questo implica una serie di azioni alternative alla mera punizione del singolo, ossia togliere chi vive in stato di indigenza da quello stato, reprimere qualsiasi cultura violenta prima che si manifesti sul piano delittuoso, correggere e/o mitigare devianze psicologiche e sociali, bonificare situazioni che favoriscono tecnicamente l’insorgere di questo o quel crimine, diffondere la bellezza e la cultura dove sono carenti, rendere certa la pena anziché severa l’eventuale punizione, ecc...

La strategia basata sulla punizione dei colpevoli implica l’accettazione di fatto della persistenza del fenomeno criminale (se non altro per il fatto che, ovunque la si è attuata con rigidità, gli atti crimini non sono mai scarseggiati). Il proibizionismo è un buon esempio in questo senso e spiga come mai le organizzazioni criminali lo caldeggino sempre e comunque, nonostante gli effetti secondari che di tanto in tanto esso comporta possano rivelarsi saltuariamente fastidiosi. La colpevolizzazione del reato favorisce chi lo attua. Ammesso e non concesso che si sappia acciuffare i colpevoli prima e distinguerli poi dagli innocenti, la “colpevolizzazione” comporta non solo la condanna dei “cattivi”, ma anche la condanna delle loro vittime (che continueranno a venir colpite dal ripetersi degli atti criminosi) e persino quella di chi amministra la giustizia (poiché così facendo magistrati, poliziotti e guardie penitenziarie sono condannati ad un lavoro sterile in stile “criceto nella ruota”). Quella scellerata strategia condanna inoltre l’intera società a sopportare i costi diretti ed indiretti dovuti alla persistenza ed alla repressione postuma dei misfatti, nonché al clima di incertezza ed insicurezza che tutto ciò comporta. D'altro canto è facile capire che la severità senza la serietà, non conduce alla disciplina, ma solo a dei criminali travestiti da giudici e poliziotti.

Nonostante tutti questi vistosi difetti, in fin dei conti, è logico che, fin dalla notte dei tempi, proprio la strategia colpevolizzante e punitiva sia stata di gran lunga quella preferita dal genere umano per “affrontare” il crimine. Questo fenomeno ha una spiegazione tanto semplice quanto tremenda: i deboli sono molto più numerosi dei forti. La società civile ne è infestata da sempre. Essere forti costa fatica ed è difficile. Essere deboli no.

Quindi come se ne esce?

Con tanta pazienza e tanta tenacia, come si addice, a chi ambisce ad essere forte e non si lascia quindi impressionare dalla strabordante e squallida tristezza dei deboli. Senza pietismi né machismi, in equilibrio tra ambizione e realismo. I forti devono poi ricordarsi sempre di non essere soli. Banalmente: poiché l’insofferenza, l’apatia, lo sconforto e la solitudine non sono forza, sono cose che, chi forte vuol essere, dovrebbe tentare d’evitare. Non si tratta quindi di dire o convincere altri a fare o non fare qualcosa, non si tratta neppure di convincere a pensare o non pensare questo o quello. Essere forti vuol dire curare la propria esistenza con equilibrio e completezza, ossia con amore verso sé stessi e chiunque altro. L’empatia non è cosa da mammolette. Chi ancora lo crede è un debole, si rassegni oppure inizi a cambiare.

Un’ultima constatazione: i forti, nonostante la sproporzione di forze e le apparenze contrarie, sono sempre stati vincitori. Nonostante guerre, atrocità, oscurantismi, avidità ed abomini di ogni tipo i forti sono riusciti a trascinare l’umanità dalla barbarie dei tempi antichi ai tre gradi di giudizio attuali (solo per limitarsi al discorso giustizia). I forti, benché vessati ed in numero esiguo, hanno permesso un lento ma costante miglioramento delle condizioni umane lungo tutto il corso della storia. Solo pochi secoli or sono, il mitico e famigerato Re Sole, apoteosi e simbolo di potere assoluto, d’inverno era suo malgrado costretto a far colazione con l’acqua che gli si gelava nel bicchiere e rischiava ogni volta, mangiando cibi mal conservati, di morire d’intossicazione alimentare come chiunque altro a quell'epoca e, in caso di un banalissimo (ma lancinante) mal di denti, era costretto a sopportare come tutti e a tenerselo a lungo. Re Sole è stato sicuramente potente, nessuno lo nega, ma le sue condizioni di vita farebbero inorridire chiunque oggi. Figurarsi quelle dei tantissimi che non erano nè re, nè regine, nè baroni. Tutto ciò può essere dato per scontato, sottovalutato od ignorato solo da esseri tanto viziati da non rendersi neppure conto dei propri privilegi e del loro preziosissimo valore, cioè da dei deboli appunto.


Buon futuro a tutti dal Panda

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