…se c’è una cosa che l’attuale crisi economica dovrebbe averci insegnato è che il “libero mercato” è tutt’altro che un sistema economico perfetto o ottimale. Sicuramente è un modello valido per tenere in equilibrio domanda ed offerta, per lo meno se paragonato ai defunti regimi sovietici. Sfortunatamente per noi che ci viviamo dentro, il “libero mercato” è un sistema anch’esso fallimentare. Il capitalismo sta fallendo, con buona pace per le sperticate lodi che economisti e politici continuano a tessergli addosso tuttora. La “colpa” non è della pur irresponsabile speculazione finanziaria. Quella è solo l’ultimo colpo di grazia, non certo la motivazione della crisi sistemica a cui stiamo assistendo in questi tristi anni.
La responsabilità ultima del fallimento del sistema economico capitalistico è sé stesso. Così com’è non funziona e basta. Il motivo non risiede in questioni morali o complessi meccanismi sociologici. E’ molto più semplice di così. Il cuore del capitalismo, come noto, consiste nella basilare regola di mercato che vuole che il prezzo di qualsiasi cosa sia determinato dall’incontro tra domanda ed offerta. Sfortunatamente questo sistema non tiene conto né dell’irrazionalità né dell’ignoranza degli attori che compongono tanto la domanda e quanto l’offerta. I prezzi così formati, quindi, hanno l’inconveniente d’essere tutti distorti. Più precisamente i prezzi stabiliti dal mercato hanno la tendenza sistematica a sottovalutare i costi nascosti. I prezzi formati nel “libero mercato” considerano solo i costi direttamente e linearmente imputabili a ciascun prodotto/servizio, come i costi delle materie prime, quelli di trasformazione e quelli di distribuzione. Ignorano però totalmente i costi ambientali delle conseguenze di qualsiasi “libera scelta” d’acquisto. Ad esempio, il prezzo di un determinato vino sarà legato ai costi di produzione e alla richiesta del mercato di quel particolare vino, eppure trascura totalmente i costi sanitari, materiali e sociali che il consumo di alcolici comporta per la società nel suo complesso (ossia il mercato stesso). Cosa ancor più grave il prezzo del vino determinato dal “libero mercato” non tiene conto dei costi ecologici. Se la coltivazione e trasformazione dell’uva contribuisce ad un aumento vertiginoso dei costi del cibo (sottraendo terreni e prodotti agricoli alle coltivazioni alternative), oppure all’inquinamento delle falde freatiche, all’immissione di quantitativi smodati di CO2 (per via della lavorazione, dell’imbottigliamento, del trasporto, ecc.) , ebbene tutto questo non si tradurrà mai in un aumento del prezzo del prodotto. Perché? Ancora una volta la risposta è semplice: perché i costi ambientali (ecologici e non) sono tamponati da un sistema fiscale iniquo e cieco. Il sistema fiscale in atto (in Italia e nel resto del mondo) oltre a tendere ad accanirsi sui poveri a tutto vantaggio delle classi agiate, mostra un altro lato oscuro. Il fisco, ovunque, ha soprattutto la funzione di sovvenzionare la produzione ed il consumo ad oltranza occultando alcuni costi: quelli più rilevanti.
I costi del vino, ad esempio, sarebbero improponibili se contenessero al loro interno i costi sociali, sanitari ed ambientali del consumo dell’alcool (basti pensare che il capitano della Exxon Valdez era ubriaco al momento del disastro, per non parlare degli infiniti incidenti stradali e sul lavoro o le spese del sistema sanitario per curare gli effetti devastanti sul fisico degli alcolizzati). Quei costi sono semplicemente scaricati sullo Stato da un mercato più avido che libero. Lo scarico avviene tramite le tasse e, parzialmente, tramite settori collaterali quali le assicurazioni che li addebitano immediatamente ai loro clienti. Non c’è corrispondenza tra “libera scelta” d’acquisto ed il pagamento di tuti i costi connessi a tale scelta.
I lavoratori dipendenti, in un tale sistema economico e fiscale, sono sfruttati ben 4 volte: all’inizio dal proprio datore di lavoro nel processo produttivo, poi dai venditori e dagli intermediari delle merci e dei servizi nel momento dell’acquisto, quindi dallo Stato al momento di pagare le tasse (dirette ed indirette) ed infine sono sfruttati dal sistema produttivo (di nuovo) nel momento in cui tali tasse vengono “dirottate” per sovvenzionare più o meno occultamente i vari settori produttivi anziché i servizi sociali di cui i lavoratori/contribuenti avrebbero un effettivo bisogno. A questi quattro tipi di sfruttamento economico se ne aggiunge un quinto, ossia l’imperfezione del sistema che si manifesta sotto forma di disinformazione, evasione fiscale, corruzione, criminalità organizzata, clientelismi, sprechi vari, ecc...
Se a livello politico si discute frequentemente del quinto livello di sfruttamento e in passato qualcosa è stato detto persino sui primi 3 livelli di sfruttamento, nulla viene mai accennato sul quarto livello, quello dei costi occultati. A chi propone tassazioni volte a regolamentare le distorsioni di mercato, come nel caso della Carbon-tax o della Tobin-tax, il sistema non risponde oppure risponde in modo aggressivo con un sonoro: NO! Il motivo è facilmente intuibile: praticamente nulla avrebbe il prezzo che ha, se quest’ultimo includesse i costi derivanti dalle pratiche fortemente inquinanti ed antisociali attualmente praticate a tutti i livelli (estrazione, lavorazione, distribuzione e consumo). Nessuno vuole vedere la propria “libertà” di consumare compromessa da costi che oltrepassano la propria capacità di spesa e ancor meno le industrie (grandi e piccole) desiderano vedere i propri margini di guadagno spazzati via in nome dell’equità e della razionalità. Un ambientalismo concreto ed efficace ed uno Stato equo sono componenti incompatibili ed inconciliabili con l’attuale sistema economico. Ancor più se si accetta l’evidenza, ossia che l’attuale sistema si regge sullo spreco e non certo sul consumo ed uso razionale delle risorse a nostra disposizione. Sopra all’economia reale, inoltre, non bisogna mai scordarsi che c’è quella monetaria e finanziaria, ben più grande e vorace della prima e che pretende rendimenti crescenti a fronte di nessuna utilità reale per il mercato nel suo complesso. Se volete, la speculazione finanziaria, di cui si fa un gran parlare in questi frangenti (senza per altro far mai seguire nessuna azione concreta), non è altro che il sesto livello di sfruttamento del lavoratore/contribuente, quello che aggredisce contemporaneamente il suo potere d’acquisto ed i suoi risparmi.
Se i livelli di sfruttamento sono 6, perché prendersela tanto proprio con le tasse? Per un semplicissimo motivo che nulla ha a che fare con la naturale avversione al loro pagamento: le tasse non coprono affatto tutte le distorsioni prodotte dal “libero mercato”. Se ci riuscissero, infatti, il sistema non sarebbe sul punto di collassare, a rimarrebbe in equilibrio. Le tasse sono un palliativo, con cui gli stati finanziano occultamente i consumo ad oltranza e danno l’impressione di contenere i danni generati dal “libero mercato”. Gran parte della tassazione va a creare il problema, anziché porvi rimedio. La solidarietà dello Stato dinanzi ai disastri e agli incidenti creati dal “libero mercato” sono in realtà funzionali al consumo ad oltranza, sovvenzionando occultamente la produzione meno competitiva e più dannosa. La maggior parte delle tasse serve cioè a dare l’impressione che il libero mercato sia vantaggioso o per lo meno gestibile. L’impressione non è però la sostanza. Non ci sono tasse che tengano per fronteggiare cataclismi come i conflitti armati, i cambiamenti climatici, l’esaurimento delle risorse, l’impoverimento estremo di interi continenti, l’inquinamento e il generale collasso degli ecosistemi a livello planetario. Questa non è una constatazione moral-ecologista, né una rivendicazione di una maggiore equità sociale. E’ una mera osservazione contabile: stiamo consumando più pianeta di quel che possiamo permetterci. Facciamo di tutto, per far finta di non saperlo, arrivando persino a sovratassarci. Le strade, i parcheggi, i viadotti, ecc. , ad esempio, sono costruiti e mantenuti con le tasse (esplicite od implicite) di tutti e non dei soli automobilisti. Né si pongono distinzioni fiscali proporzionali tra un camion e una citycar, benché il primo rovini l’asfalto ed inquini l’aria per diversi ordini di grandezza in più rispetto all’altra. Né si pongono distinzioni tra un soggetto obeso, fumatore, alcolizzato e carnivoro rispetto ad uno normopeso, non-tabagista, astemio e vegetariano: il sistema sanitario li tratta come se fossero uguali e fa pagare entrambe le stesse cifre pur a fronte di costi incommensurabilmente diversi. Chi abusa degli antibiotici e chi muore per un ceppo resistente è uguale dinnanzi allo Stato, così come chi compra un Suv e chi muore per lo smog che quel Suv ha emesso. Lo Stato stenta a far pagare le tasse per fascia di reddito (e nemmeno in modo equo), figuriamoci se possa anche solo pensare di far pagare le tasse in modo proporzionale ai danni creati dai comportamenti d’acquisto e di consumo. Inconcepibile!
Troppo complesso? Allora continuiamo con l’attuale linea d’azione. Purtroppo è proprio quella che ci ha portati al punto in cui siamo, ossia ad ipotecare non più solo il nostro (ed altrui) futuro, ma anche il presente. Questa affermazione dovrebbe essere più che evidente per chiunque, tra i milioni di sfollati di questi ultimi anni, ha dovuto suo malgrado subire la violenza di un’inondazione, di un uragano, della desertificazione, di una guerra o di analoghi eventi. E questo purtroppo non è nulla rispetto alla devastazione che potrebbe rovesciarsi su di noi, in un futuro sempre più prossimo. Il solo innalzamento del livello degli oceani di pochi metri, ad esempio, comporterebbe centinaia di milioni di profughi e la perdita di gran parte delle terre coltivabili (a causa del infiltrarsi dell’acqua salata nelle falde).
Fantascienza? Sì come gli uragani a New York!
La triste realtà è che continuando imperterriti con questi “errori contabili” finiremo tutti dritti in bocca prima alla povertà estrema e poi ad un collasso traumatico a livello di civiltà nel suo complesso. Viviamo in un mondo tanto interconnesso quanto fragile e vulnerabile. Bisogna modificare il capitalismo ultraliberista con una tassazione che corregga le sue distorsioni più evidenti oppure l’ultraliberismo sarà l’ultimo sistema socio-economico degno di questo nome che l’umanità potrà mai più conoscere. Si tratta di un cambiamento che conviene (e molto) a tutti. Extraterrestri a parte.
Buon futuro a tutti dal vostro affezionato Panda
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