Bitcoin, carpooling, corsi di riparazione on-line, Do-It-Yourself, banche del tempo, baratto asincrono, Crowdsourcing, Crowd funding, Crowd science, MOOC (massive open online course), ecc…
Il web si sta trasformando nella più grande sperimentazione economica di tutti i tempi. Una specie di brainstorming planetario che non trascura nessun campo: produzione, informazione, trasporto, finanza, monetica, turismo, conio, ricerca, educazione, arte, distribuzione, ecc…
Prese singolarmente, sono quasi tutte attività marginali, ma complessivamente?
Beh,...
...non credo proprio.
Inoltre, “quasi tutte” non vuol dire tutte. Già ora, alcune iniziative stanno in realtà raggiungendo dimensioni di tutto riguardo. L’esperienza, ad esempio, dei Bitcoin, dopo un momento di crisi, sta vivendo ora una fase di forte espansione. Più in generale, indipendentemente dalle rispettive dimensioni, questi fenomeni si stanno diffondendo ed irrobustendo man mano che il tempo passa.
Il fatto è che nessuno può valutare gli impatti economici indiretti di realtà singole come Wikipedia o i vari MOOC, figuriamoci chi può stimare l’impatto economico complessivo (diretto ed indiretto) di tutti questi variegati e sfuggenti fenomeni on-line. Il fenomeno è intrinsecamente opaco, polverizzato e variegato all’inverosimile. Quindi è facile sottostimarlo (esattamente come avvenne in passato per l’agricoltura biologica o come accade tutt’ora con il mercato dell’equo-solidale).
Prendiamo Wikipedia, che impatti economici può avere un servizio gratuito? Beh, ha sbaragliato tutti i concorrenti a pagamento (sia cartacei che non) e questo, a livello planetario, vuol dire molte, moltissime tonnellate di carta e CD in meno ogni anno (e noi tutti sappiamo cosa vuol dire ciò per l’ambiente). Sì, qualcuno starà pensando, ma a fronte di quale energivora ed immensa rete di server? Soli circa 800 server (a fronte però di diverse centinaia di milioni di utilizzatori al mese). Il fatto è che avventure come quella di Wikipedia, analizzate da vicino, dimostrano un’efficienza sbalorditiva non solo in ciò che fanno, ma anche in come lo riescono a fare in termini di risorse interne. Il grado d’efficienza complessivo, in confronto ad analoghe strutture tradizionali, dovrebbe essere fonte di profondo imbarazzo per qualsiasi liberista intellettualmente onesto (ammesso e non concesso che ne esistano).
Tralasciando eventuali simpatie od antipatie per il fenomeno, le mera dimensione e la tendenza dello stesso, suggerisce che vi sia una sorta di reazione planetaria alla “crisi”: il sistema tenta di mantenere lo status quo anche dove non sarebbe più possibile farlo utilizzando gli schemi economici tradizionali. Questo sforzo spinge milioni di menti ad ingegnarsi e ad escogitare formule inedite ed a volte molto inconsuete di “fare business”. In gran parte la Pop economy smantella il concetto di “fare business” alla base. “Fare business” in questa nuova accezione non è più necessariamente sinonimo di “fare soldi”, ma neppure di no-Profit (inteso in senso classico). Il concetto di base della Pop Economy è semplicemente quello di rinunciare all’utilizzo esclusivo del bene o servizio.
Nonostante l’estrema varietà che contraddistingue la Pop Economy, esiste infatti un robusto filo comune che lega ed accomuna tutte queste realtà: la collaborazione, resa ora “economicamente” sostenibile grazie soprattutto alle meraviglie del web. Nella Pop Economy l’utilizzatore non consuma semplicemente beni e servizi, ma partecipa a beni e servizi, evitando quindi le inutili duplicazioni ed inefficienze che un’utilizzazione esclusiva comporta. La superiore (ed evidente) efficienza rispetto all’economia tradizionale è quindi intrinseca, non accidentale o fortuita: la Pop Economy riesce ad erogare beni e servizi utilizzando minori risorse.
Forse l’imminente collasso globale sta spingendo la nostra civiltà (e l’economia che la sostiene) verso forme maggiormente collaborative, utilizzando il web come una sorta di valvola di sfogo. Poiché tuttavia finora l’economia si è basata prevalentemente sulla competizione (tanto celebrata e decantata dal liberismo nonostante i ripetuti disastri a cui ci ha condotto), non esiste né una teoria e neppure una letteratura di massima che aiuti a comprendere ed ottimizzare un sistema economico incentrato prevalentemente su partecipazione e collaborazione. Esistono tanti diversi ed isolati casi spontanei, ma nessuna visione organica. Un grave limite a cui gli accademici sembrano non aver fretta di rimediare. Forse gli sponsor del liberismo economico pagano meglio.
Eppure ci sarebbe un estremo bisogno di una teorizzazione che aiuti ad avere una visione d’insieme su questo nuovo metodo di fare economia. Se è vero, infatti, che la pressione generata dal fallimento dell’economia ultra-liberale sta gonfiando le vele della Pop Economy, è ancor più vero che se tale pressione andrà oltre il livello di guardia non solo le vele della Pop Economy si squarceranno ma l’intero sistema economico collasserà. Non è quindi interesse di nessuno opporsi a certe novità. Se il liberismo potrà avere qualche anno in più di vita, lo dovrà solo a fenomeni come la Pop Economy, cioè a fenomeni in grado di mitigarne i drammatici effetti negativi.
Mentre le leadership mondiali, al fine di mantenere ed accrescere i propri osceni privilegi, tentano di spremere la base della società civile fino all’ultima goccia di “lacrime-e-sangue” usando la competizione al ribasso tra poveri come leva d’azione ricattatoria, la base reagisce tentando (con mezzi incommensurabilmente minori) di svincolarsi dalla morsa ed inventandosi quindi la Pop Economy. Se la base della società civile non riuscirà a vincere, almeno parzialmente, questa sfida, la pressione derivante dal fallimento del capitalismo ultra-liberista travolgerà tutti e tutto, leadership mondiali incluse.
Buon futuro a tutti dal Panda
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